Adozione, disabilità e principio di eguaglianza: la sentenza n. 33/2025 della Corte costituzionale tra apertura selettiva e nodi sistemici irrisolti

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Con la sentenza n. 33 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 29-bis, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui precludeva alle persone singole residenti in Italia la possibilità di presentare domanda di adozione internazionale. La pronuncia ha rimosso una barriera normativa che si fondava su una presunzione astratta di inidoneità e che si traduceva in un’irragionevole compressione sia della libertà personale dell’aspirante genitore sia del diritto del minore abbandonato a trovare una famiglia. Con tale decisione, la Corte ha riaffermato il principio secondo cui ogni valutazione in materia adottiva deve fondarsi su una disamina concreta e individualizzata, centrata sul preminente interesse del minore e non su schemi stereotipati o requisiti meramente formali.

Tuttavia, l’ambito applicativo della pronuncia risulta volutamente limitato: la Corte ha inciso unicamente sulla disciplina delle adozioni internazionali, lasciando immutata quella delle adozioni nazionali, nelle quali permane il requisito della coniugalità come condizione per l’adozione piena, salvo le ipotesi eccezionali già previste dagli artt. 25 e 44 della legge n. 184/1983. Da tale scelta discende un effetto sistemico disarmonico e potenzialmente discriminatorio, poiché genera un’irragionevole disparità di trattamento tra minori in stato di adottabilità in base alla loro cittadinanza o residenza. Così accade che una persona singola italiana, anche perfettamente idonea, possa essere autorizzata ad adottare un minore straniero, ma non un minore italiano in analoga condizione di abbandono, pur in presenza del medesimo interesse concreto del minore a ricevere cure familiari.

Questo differente regime può determinare una forma di discriminazione indiretta in danno del minore cittadino italiano, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione e con gli artt. 2 e 20 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, laddove la cittadinanza o il luogo di origine diventino il criterio sostanziale di accesso a una famiglia. In tali casi, la discriminazione si qualifica anche come “inversa” rispetto alla prospettiva classica, in quanto colpisce non l’adulto aspirante all’adozione ma il bambino stesso, che vede ridursi le possibilità di accoglienza familiare a causa di barriere normative poste nei confronti di una determinata categoria di adulti. Il minore con disabilità risulta in questo senso doppiamente vulnerabile: da un lato, in quanto rientrante tra le cosiddette “adozioni difficili”, è già meno frequentemente scelto da coppie adottive; dall’altro, in quanto cittadino italiano, subisce una restrizione ulteriore, potendo essere adottato solo da coppie coniugate e non anche da single, che invece sarebbero ammessi in caso di adozione internazionale.

Tali effetti selettivi si pongono in contrasto anche con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), che l’Italia ha ratificato con legge n. 18 del 2009. L’art. 23, par. 1 e 2, della CRPD impone agli Stati di garantire a tutte le persone, inclusi i bambini con disabilità, il diritto alla vita familiare, all’adozione e all’accoglienza, e prevede il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità nei procedimenti di tutela, affidamento o adozione. Il minore con disabilità non può essere trattato diversamente da un coetaneo privo di disabilità quanto al diritto a trovare una famiglia, e le autorità competenti devono porre in essere tutte le misure necessarie per evitare che tale condizione diventi un ostacolo all’inserimento in un contesto familiare.

Altrettanto centrale è il profilo discriminatorio diretto che può colpire l’aspirante adottante. Sia la CRPD sia la giurisprudenza europea vietano ogni esclusione automatica fondata su caratteristiche personali non pertinenti, quali la disabilità, l’orientamento sessuale, la condizione anagrafica, lo status coniugale o l’appartenenza religiosa. Tali tratti, in assenza di un accertamento individualizzato che ne dimostri un’incidenza negativa sull’interesse del minore, non possono costituire motivo di esclusione dall’idoneità all’adozione. In particolare, la disabilità – che la CRPD qualifica come il risultato dell’interazione tra condizioni personali e barriere sociali – impone l’adozione di un paradigma valutativo differente da quello tradizionalmente centrato su modelli di piena autosufficienza fisica. L’idoneità genitoriale deve essere apprezzata alla luce della capacità di accudire, educare e proteggere il minore anche con l’ausilio di supporti esterni, familiari o istituzionali. Escludere la persona con disabilità dall’adozione per il solo fatto della sua condizione si tradurrebbe in una discriminazione diretta, in violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 23 CRPD e degli artt. 8 e 14 CEDU.

Ma ancora più insidiosa è la discriminazione indiretta, quella che si annida nei meccanismi apparentemente neutri ma che producono effetti pregiudizievoli in danno di determinati gruppi. L’esistenza di prassi amministrative che richiedano, ad esempio, requisiti sanitari standardizzati, certificazioni mediche non tarate sull’effettiva funzione genitoriale, o la piena autosufficienza motoria, può avere l’effetto di escludere sistematicamente le persone con disabilità, senza una ragione obiettiva proporzionata. In tali casi, il mancato riconoscimento della necessità di accomodamenti ragionevoli – previsti espressamente dall’art. 5 della CRPD – si configura come una forma di discriminazione per omissione, esattamente equiparabile a un trattamento meno favorevole. Lo stesso vale per l’adozione di criteri valutativi improntati a modelli culturali rigidi, che penalizzano, pur senza enunciarlo, aspiranti adottanti per motivi di orientamento sessuale, identità di genere, religione o stile di vita.

Il risultato è una discriminazione “doppia”: colpisce l’adottante per la sua condizione personale e, al contempo, si ripercuote sul minore, privandolo di una concreta possibilità di essere accolto in una famiglia. In tale prospettiva, il danno si trasferisce dal soggetto escluso al beneficiario potenziale dell’istituto, trasformando una valutazione astratta in una lesione concreta del diritto del bambino a vivere in un ambiente stabile e affettivo. Ed è proprio in questa proiezione che la CRPD – nel suo intreccio con la Convenzione sui diritti del fanciullo e con la giurisprudenza della Corte EDU – impone una ridefinizione strutturale dei criteri di accesso all’adozione, orientata al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale e del diritto all’inclusione.

Le esperienze comparate offrono modelli in tal senso già consolidati. In Francia, Paesi Bassi, Germania, Canada e Svezia, l’adozione da parte di persone singole e/o con disabilità è disciplinata secondo criteri di effettiva valutazione delle capacità individuali, accompagnati da misure di sostegno e servizi dedicati alla genitorialità. In alcuni ordinamenti, sono stati istituiti meccanismi specifici per il supporto alla genitorialità delle persone con disabilità e programmi per facilitare l’adozione dei minori con bisogni speciali. Queste politiche dimostrano che l’inclusione non solo è possibile, ma produce risultati positivi per tutti i soggetti coinvolti, rendendo visibile ciò che nella normativa italiana è ancora marginale o relegato a ipotesi eccezionali.

La sentenza n. 33/2025, pur rappresentando un passo decisivo, non scioglie tutti i nodi del sistema: lascia irrisolta la questione della discriminazione tra minori sulla base della cittadinanza; non affronta il problema delle prassi valutative discriminatorie; non riconosce espressamente il dovere di accomodamento ragionevole per gli adottanti con disabilità. Resta dunque urgente un intervento normativo che superi le rigidità residue, uniformi i criteri tra adozione nazionale e internazionale, e affermi il principio della piena inclusività dell’adozione, quale diritto del minore a essere accolto da chi, indipendentemente da caratteristiche personali o status giuridico, possa garantire un ambiente di cura, protezione e affetto.

Il fondamento dell’adozione, nel nostro ordinamento come in quello sovranazionale, non è il modello di famiglia ma il legame generativo costruito sull’accoglienza, sulla responsabilità e sulla reciprocità. Ogni barriera che ne ostacoli la formazione deve essere considerata con sospetto, soprattutto quando agisce silenziosamente, celandosi dietro formalismi o criteri presuntivi. Ecco una possibile riformulazione della frase, che sottende il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso senza nominarle esplicitamente, valorizzando invece l’idoneità affettiva e relazionale della formazione familiare:

È proprio su questo terreno che si misura l’effettività del principio di eguaglianza sostanziale e la capacità dello Stato di farsi garante dei diritti dei soggetti più vulnerabili, a partire da quello del minore, indipendentemente dalla cittadinanza, a crescere all’interno di un contesto familiare idoneo sotto il profilo affettivo ed educativo, anche qualora strutturato al di fuori dei modelli familiari tradizionali.

Francesco Alberto Comellini
Componente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Permanente sulla Disabilità

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